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Salario minimo: la bozza della direttiva UE

Complici i rallentamenti dovuti alla pandemia, l’Unione europea è stata chiamata ad intervenire sulle condizioni di lavoro dei propri cittadini, da sempre al centro di un acceso dibattito politico e sociale.  A settembre 2020, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ha evidenziato come per troppe persone il lavoro non fosse più remunerativo, anticipando la proposta che spingeva per la creazione di un quadro normativo sul salario minimo.

La situazione attuale

Al momento, 21 stati membri dell’UE su 27 prevedono un salario minimo fissato per legge. Gli altri, tra cui l’Italia, ma anche Danimarca, Svezia, Finlandia, Austria e Cipro, si rimettono invece alla contrattazione collettiva. Il Belgio addirittura ricorre ad entrambi i sistemi, prevedendo un minimo salariale affiancato ad una forte contrattazione collettiva. A dimostrazione che i due approcci non sono necessariamente alternativi: il fatto che alcuni Paesi sopperiscano alla mancanza di un salario minimo con una forte presenza sindacale non significa necessariamente che le due cose non possano andare di pari passo.

Il quantum

L’importo del salario minimo lavorativo, che per comodità chiameremo SML, dipende da alcuni fattori, tra i quali il costo della vita, il tasso di produttività ed eventuali sussidi statali. Tra questi ultimi, per fare un esempio a noi vicino, il famoso “reddito di cittadinanza”, che in non poche occasioni è stato ritenuto più “allettante” di un lavoro mal pagato.

Inoltre, il SML può essere universale o settoriale. Il primo, come si può immaginare, è costituito da un importo fisso, mentre il secondo dipende dalla categoria a cui il lavoratore appartiene.

L’imprecisa (ma diffusa) definizione di “salario minimo europeo”

Ma torniamo all’Unione europea. Nelle ultime settimane si sente spesso parlare di “salario minimo europeo”. Una definizione in realtà piuttosto imprecisa, e questo per due ordini di ragioni.

In primo luogo, all’interno dei 27 Paesi dell’UE ci sono differenze troppo elevate tra i valori di costo della vita, salari medi, produttività, in sostanza, di tutti quei valori che incidono sull’individuazione di un salario minimo e che rendono impossibile decidere una media che possa valere per tutti gli Stati membri.

In secondo luogo, l’articolo 153 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea definisce una serie di ambiti in cui l’UE ha competenza concorrente (che significa che sia l’Unione che i Paesi che la compongono possono legiferare e adottare atti giuridicamente rilevanti). Tra questi, anche il settore lavorativo. Questo, quindi, porta con sé la conseguenza che l’UE sostiene e completa l’azione degli Stati membri, non potendosi interamente sostituire ad essi (come avviene nel caso in cui le è attribuita competenza esclusiva) e, pertanto, non è possibile scavalcare le legislazioni nazionali ed imporre un salario minimo comune a tutti i Paesi membri.

Gli obiettivi della direttiva

La direttiva si pone tre obiettivi:

  1. promuovere l’adeguamento dei salari minimi di legge, dove esistenti;
  2. promuovere il ruolo della contrattazione collettiva in tutti gli Stati membri;
  3. implementare i meccanismi di controllo sul mercato del lavoro.

L’intenzione sembrerebbe quella di non snaturare l’attuale approccio e di mantenere nell’UE i due sistemi, del salario minimo e della contrattazione collettiva, offrendo maggiori garanzie sia in un caso che nell’altro.

Allo stato attuale dobbiamo limitarci ad una semplice stima degli effetti della direttiva. Ricordiamo, infatti, che la proposta della Commissione è rimessa al vaglio del Parlamento e del Consiglio europeo; una volta approvata, poi, gli Stati membri dovranno recepirla nel proprio ordinamento entro due anni.

Ci riaggiorniamo, forse, nel 2024.

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