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Cyberware

Nel 2020, la società polacca CD Projekt Red ha pubblicato il videogioco Cyberpunk 2077, ispirandosi al gioco di ruolo Cyberpunk ideato da Michael Alyn Pondsmith nel 1988 per R. Talsorian Games.

Quello degli anni Ottanta era un gioco carta e penna che si innestava nell’omonima corrente letteraria resa popolare soprattutto da Mirrorshades, un’antologia fantascientifica di grande successo, pubblicata l’anno prima a cura di Bruce Sterling con la decisiva partecipazione di William Gibson. Il genere cyberpunk ha offerto una visione del futuro molto meno ottimista rispetto a quella tipica dell’epoca d’oro della fantascienza, perlopiù connotata da una fiducia sconfinata nell’ingegno, nella forza psicofisica e nella tempra morale del genere umano. Tuttavia, non si tratta nemmeno di un genere completamente distopico, ma che mira piuttosto a dipingere un’immagine realistica del futuribile, caratterizzata dall’evolversi delle luci e delle ombre tipiche del presente. Le opere cyberpunk evitano di spingersi troppo in là nel futuro, così da poter tracciare un percorso storico che ne connetta saldamente le ambientazioni al contesto contemporaneo. Esse offrono ampio spazio a riflessioni sull’evoluzione geopolitica, urbanistica, ecologica e sociale del mondo, ponendo l’accento sull’impatto che le tecnologie, già oggi in via di sviluppo, potrebbero avere una volta messe a punto. Ovviamente questo comporta un ruolo centrale per i settori della ricerca la cui importanza è oggi particolarmente ovvia: l’informatica, la medicina, lo studio dei materiali e quello sulle fonti energetiche.

Queste linee di sviluppo tecnologico, però, convergono in un settore che oggi è appena agli albori: l’integrazione uomo-macchina, uno dei campi della cibernetica. Il genere prende il nome da questa branca della scienza, perché essa offre prospettive ricche di fascino sul destino dell’umanità stessa. La cibernetica non tratta unicamente dello sviluppo di cyborg, cioè esseri viventi, perlopiù umani, dotati di numerosi organi sintetici, apparati biotecnologici o altri impianti invasivi. Possiamo parlare di cibernetica teorica ogniqualvolta compariamo, a qualsiasi livello, un organismo vivente a uno artificiale, o anche solo quando indaghiamo un qualsiasi rapporto significativo tra gli organismi naturali e gli apparati tecnologici. Sono frutto di studi di cibernetica, pertanto, anche la robotica, l’intelligenza artificiale e lo sviluppo di interfacce che consentano un’interazione immersiva e personalizzata con gli strumenti informatici. Potremmo quindi fantasticare nel senso opposto rispetto a quello tradizionalmente riferito ai cyborg, immaginando l’innesto di elementi organici, sviluppati in laboratori per mezzo di colture cellulari geneticamente programmate, all’interno delle macchine, un procedimento finalizzato a migliorarne specifiche funzioni, come nel caso delle gelatine bioneurali introdotte nel canone di Star Trek dalla serie Voyager. È tuttavia chiaro come la nostra immaginazione sia maggiormente stimolata dall’idea di connettere saldamente oggetti artificiali ai nostri stessi corpi. Si tratta di un’idea sviluppatasi negli anni Cinquanta, con la formulazione da parte del filosofo Pierre Teilhard de Chardin e del suo amico biologo Sir Julian Sorell Huxley del concetto di transumanesimo, secondo il quale l’umanità starebbe procedendo verso un livello di avanzamento tecnologico tale da rendere impossibile immaginare che la specie stessa non ne sia gradualmente trasformata, sebbene questo non significhi affatto che le nostre basilari norme etiche e morali, cioè il modo in cui diamo un senso alle nostre vite, debbano svanire. All’hardware e al software, sarebbe quindi necessario aggiungere un’altra categoria elettrotecnica, quella integrata nel corpo umano: il cyberware.

Esistono oggi varie associazioni di transumanisti che sostengono l’importanza di utilizzare componenti cyberware per migliorare le capacità, la salute, l’intelligenza e le percezioni umane. Alcuni attivisti hanno eseguito interventi chirurgici sul proprio corpo per innestarvi concretamente degli strumenti particolari, come l’artista britannico Neil Harbisson che, dal 2004, ha un’antenna impiantata nell’osso occipitale che gli permette di superare la sua acromatopsia congenita convertendo in vibrazioni sonore le frequenze dei colori. Lo strumento appare nel suo passaporto, in quanto parte integrante del suo corpo, e gli permette anche di ricevere telefonate, ascoltare musica e ottenere informazioni via satellite. Se il suo caso può apparire estremo, bisogna però notare che oggigiorno facciamo ampio uso di chip sottocutanei, soprattutto sugli animali domestici, ma anche di altri ritrovati della bionica, ovverosia quella branca della cibernetica che analizza l’imitazione dei processi biologici nei costrutti tecnologici. Da essa nascono le protesi robotiche, i supporti vitali e gli innesti programmabili dotati di alti livelli di automazione, come i cuori artificiali AbioCor. La possibilità di tornare ad afferrare le cose dopo aver perso le mani, correre dopo aver perso le gambe o sopravvivere a un organo vitale compromesso è una meravigliosa prospettiva che sta facendo il suo ingresso nel nostro tempo.

Come in ogni altro ambito di cambiamento, non mancano le critiche e bisogna sempre ricordare, non solo che ogni sensibilità merita di essere ragionevolmente rispettata, ma che tutti i punti di vista condivisi hanno un valore reale. Devo però aggiungere che uno sguardo alla storia tende a essere piuttosto loquace in tal senso: l’uomo ha sempre modificato il suo corpo per ragioni utilitaristiche, ritualistiche, religiose o meramente estetiche. Un cyberware è l’evoluzione di manufatti molto antichi, come gli occhiali che a Venezia vennero commercializzati almeno dal XIII secolo d.C., le dentiere, che gli etruschi creavano già nel VII secolo a.C., per non parlare delle protesi per gli arti che venivano prodotte con un discreto livello di finezza già nell’Egitto del terzo millennio a.C.

Il recupero di funzioni perdute è qualcosa di diverso rispetto all’aggiunta di funzioni mai possedute, ma anche questo non è un tema veramente nuovo. Anche un telescopio altera la visione naturale e nel Rinascimento si polemizzava contro il suo utilizzo ravvisandovi una violazione del disegno divino e della conseguente sacralità del corpo umano. Quella di alterare creativamente il proprio corpo, è infatti una libertà essenziale della nostra civiltà contemporanea, dove è possibile cambiare sesso senza essere visti come dei mostri e tatuarsi senza essere affiliati a una tribù che imponga un determinato motivo ornamentale. Forse presto potremo anche avere la libertà di andare alla Neuralink di Elon Musk, a San Francisco, per farci impiantare una neuroprotesi che ci permetta di scrivere un articolo come questo senza toccare alcuna periferica.

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